Deportati italiani durante la
Seconda Guerra Mondiale

Storia

I primi lager (campi di concentramento) tedeschi nascono già con l'avvento di Hitler nel 1933, dando il via a uno degli episodi più cupi della storia. L'idea dietro la loro funzione non era solo di sterminare sistematicamente i prigionieri ma di “deumanizzarli”; il primo passo in questo processo era la perdita del proprio nome, che veniva sostituito da un codice tatuato sul braccio. Dal 1933 al 1945 se ne contano circa 1600, più o meno improvvisati, costruiti prima in Germania e successivamente negli stati alleati od occupati dal regime nazista quali Italia, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria. Il più grande e conosciuto, Auschwitz, era un complesso di quasi 50 campi situati nella Polonia meridionale in cui morirono più di un milione di prigionieri. I deportati non erano solo ebrei, ma anche dissidenti politici, prigionieri di guerra, partigiani, minoranze etniche e criminali tedeschi. In Italia il regime fascista aderì alle leggi razziali naziste nel 1938, questo portò a vari episodi di eccidi, come quello delle Fosse Ardeatine e alla costruzione di campi di concentramento, utilizzati però solo a scopo detentivo, per selezionare e trasferire i prigionieri nei lager nazisti. Sparsi in tutta italia, questi campi vedevano un costante afflusso di prigionieri a causa dei rastrellamenti delle truppe nazi-fasciste; quello più famoso, a Fossoli viene descritto da Primo Levi nel libro “Se questo è un uomo” dopo esserne stato reduce. Nel lager vigeva un gerarchia molto precisa, che vedeva all'ultimo posto gli ebrei, considerati alla stregua di animali e al comando delle sezioni di prigionieri, dei tedeschi scelti per la loro crudeltà e ottusità. I nazisti assegnati ai campi non facevano parte dell'esercito ma erano un'unità indipendente, gestita direttamente dalle SS.