Al 31 dicembre 2013 i detenuti nelle carceri italiane risultano 62.536. Il tasso di detenzione per 100.000 abitanti è pari a 103,8 in Italia, a 128,9 in Europa, a 145 nel mondo. Il numero di detenuti presenti in Italia è di gran lunga superiore alla capienza regolamentare, fissata a 47.709 posti, ma il tasso di sovraffollamento è in costante diminuzione grazie ai recenti provvedimenti normativi. Il 61,5% dei detenuti ha una condanna definitiva, il 36,6% è in attesa di un giudizio definitivo e l’1,9% è sottoposto a misure di sicurezza.
Oltre ai detenuti, sono 29.741 i condannati che usufruiscono di misura penale esterna al carcere (con un aumento del 70% rispetto al 2000): il 74,4% usufruisce di misure alternative, il 14,8% di lavori di pubblica utilità e il 10,8% di altre misure - come la libertà vigilata, la libertà controllata e la semidetenzione.
Le violazioni della normativa sugli stupefacenti rappresentano la tipologia più diffusa di reati (24.273 casi, 38,8%); poi si hanno i reati di rapina (18.064 casi, 28,9%) e di furto (13.531 casi, 21,6%).
Per quanto riguarda le forme di protesta, lo sciopero della fame è la più diffusa (7.851 casi nel 2013), poi il rifiuto del vitto (1.548) e il danneggiamento degli oggetti (736).
Nel corso del 2013 sono stati registrati 42 casi di suicidio tra i soli maschi e 1.067 di tentato suicidio; gli atti di autolesionismo sono stati 6.902.
Il 95,7% dei detenuti è di sesso maschile (quota stabile nel corso del tempo). Le detenute con prole al seguito sono ospitate in sezioni maggiormente idonee ai bambini: al 31 Dicembre 2013 sono 40 e quasi tutte hanno un solo figlio con sé, mentre sono 17 le donne in gravidanza.
Il 64% dei detenuti è nato in Italia. I detenuti stranieri, pari al 34,9%, provengono per la maggior parte dall’Africa (46,3%) - in particolare da Marocco (18,6) e Tunisia (12%) - e dall’Europa (41,6%).
Il 54,4% dei detenuti ha meno di quarant’anni, mentre il 19,2% ha più di 50 anni e il 5,7% più di 60.Il 38,9% dei detenuti è celibi o nubili.
I corsi scolatici attivati nel 2012/2013 sono stati 991: sono stati frequentati dal 24,7% della popolazione penitenziaria; i corsi di avviamento professionale sono stati 318; il 23,3% dei detenuti in carcere risulta lavoratore (con un aumento del 13,6% rispetto al 2000).
Una delle cause principali di malessere nelle carceri italiane è, senza dubbio, il sovraffollamento: sono in totale 116 le morti da carcere nel 2014. Tra le principali cause di decesso - nonché diretta conseguenza del sovraffollamento e del basso tenore di vita dei detenuti -, il suicidio: sono già 38 le persone che si sono suicidate in galera nel 2014 (un dato in leggera flessione rispetto al passato, ma comunque che evidenzia ancora una volta l’emergenza di sovraffollamento e condizioni di vita estremamente difficili.
Altra causa - non meno importante del sovraffollamento - è la carenza di organico, come sta accadendo per il cibo: la spesa fissata dallo Stato per sfamare un detenuto è di soli 3,90 euro al giorno (nemmeno due euro per il pranzo né due per la cena). E c’è il rischio che le cose vadano peggiorando, anche se il Si.di.pe (il sindacato più rappresentativo del personale della Carriera dirigenziale penitenziaria) ha confermato la propria contrarietà a qualunque ipotesi di riduzione degli organici dell’Amministrazione penitenziaria e, in particolare, ad ipotesi di accorpamenti e riduzioni di posti di funzione della dirigenza penitenziaria.
Se anche una delle due ipotesi sopra venisse presa in considerazione dal sindacato - e dunque attuata -, ciò determinerebbe gravi conseguenze che ricadrebbero sull’utenza e sui cittadini, perché si altererebbero i delicati equilibri del complesso sistema penitenziario e si indebolirebbe significativamente il complessivo sistema della sicurezza dello Stato a danno dei cittadini; infatti il lavoro della forze dell’ordine nei penitenziari è necessaria: quotidianamente la polizia penitenziaria assicura la sicurezza all’interno delle carceri, ma salva costantemente anche vite umane: sono 1500 mediamente ogni anno i tentati suicidi in cella e negli ultimi dieci anni la polizia penitenziaria ha salvato circa 6000 detenuti in extremis dal tentativo di suicidio.
Per risolvere o almeno ridurre il sovraffollamento delle carceri Il Dap ha tempo fino Maggio del 2015, ma resta ancora senza una guida; l’amministrazione penitenziaria deve governare 54 mila detenuti, 35 mila persone in misure alternative, 45 mila poliziotti e altre figure professionali, per un totale di circa 150 mila persone.
Secondo i dati forniti dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), all’inizio del 2014 il tasso di sovraffollamento era pari al 128.8%: ciò significa che a gennaio 2014 erano circa 129 (per ogni 100 posti disponibili) i detenuti nelle carceri italiane; mentre, dall’inizio del 2013 ad oggi, la media è stata leggermente più elevata e pari a circa 140 detenuti (ogni 100 posti disponibili).
A livello europeo, dove nel 2011 la media era di 99,5 detenuti per 100 posti, l’Italia risultava terz’ultima su 47 paesi nella graduatoria sul sovraffollamento, preceduta solo dalla Serbia (157 detenuti per 100 posti) e dalla Grecia (151 detenuti per 100 posti).
La situazione di vuoto di potere del Dap è solo l’ultimo tassello di uno scontro di poteri interno alla politica e alla magistratura italiana che sembra non avere fine: infatti con la battaglia per le nomine nelle procure e lo scontro all’interno del palazzo di giustizia di Milano, lo stallo nell’amministrazione giudiziaria rischia di ricadere anche sulla sempre più complessa situazione delle carceri italiane, già evidenziata dall'Europa a più riprese. E la cosa più grave è che la politica al momento rimane in silenzio.
Anche se la Corte di Strasburgo ha dichiarato che quelli assunti dall’Italia sono provvedimenti che hanno affrontato l’emergenza sovraffollamento, ciò non significa che esista un carcere all’altezza della situazione. Per giungere ad una soluzione bisogna far sì che il sistema penitenziario italiano non sia così passivo come lo è ora, ma ciò non basta: si ha, infatti, una lista lunghissima di problemi non secondari - dalle pessime condizioni di reclusione che i detenuti devono scontare, ai fenomeni di abbandono terapeutico, all’inattività a cui sono costretti; ciò non riguarda solo i detenuti, bensì anche le guardie penitenziarie.
Oltre 100 detenuti l’anno muoiono per cause naturali nelle carceri italiane (infarto, complicazioni, lungo deperimento dovuto a malattie croniche o a scioperi della fame); nonostante ciò, però, raramente i giornali ne parlano e anzi, a riguardo di questi ultimi casi, i tribunali applicano in maniera altamente disomogenea le norme sul differimento della pena per le persone gravemente malate (art. 146 e art. 147 c.p.), senza contare che spesso la scarcerazione non viene concessa perché il detenuto è considerato ancora pericoloso, nonostante la grave malattia.
L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/99 dice che:
“I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini
in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione,
efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e
uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali”
Le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto passare dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità; ciò che invece è accaduto è che la maggior parte delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti è stata tagliata, mentre i detenuti morti per problemi di salute sono aumentati d’anno in anno.
Con i tagli alle risorse della Sanità Penitenziaria ed una conseguente diminuzione del personale, che era già insufficiente, non è più possibile garantire al detenuto quel diritto alla salute sancito dalla Costituzione; conseguenza di questa azione sarà senza dubbio l’aumento delle ospedalizzazioni e dei suicidi: quindi i pazienti, dopo aver perso la libertà, rischiano di perdere la salute e spesso anche la vita.
La maggior parte dei detenuti malati non riceve cure adeguate e a peggiorare la situazione ci sono anche i trasferimenti: infatti capita spesso che insieme al detenuto non venga spedita la sua cartella clinica nel carcere di destinazione; la conseguenza è la sospensione forzata della terapia e quindi l’annullamento dei risultati raggiunti.
Una buona parte di detenuti approfitta del proprio stato di salute per cercare di ottenere migliori condizioni di detenzione se non addirittura la detenzione domiciliare o il rinvio della pena; e i medici, a loro volta, tendono a sottovalutare la gravità dei sintomi di una malattia; ciò perché ormai si è andato perdendo quel rapporto di fiducia che invece sarebbe necessario per l’effettività delle cure.
Conseguenza di tale sistema è che, quando un detenuto muore, si mette in atto tutta una serie di depistaggi per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto: sia all’interno del carcere (gli agenti non hanno sorvegliato, i medici non hanno curato, gli psicologi non hanno compreso, i magistrati non hanno scarcerato), sia all’esterno (non è morto in cella, ma durante la corsa o dopo l’arrivo in ospedale), così da scagionare i veri colpevoli.
Anche in questo caso - come nel caso dei detenuti visti come cifre e non come persone - sono i familiari e gli avvocati della vittima ad impegnarsi affinché salti fuori la vera versione dei fatti, e non quella mitigata dal carcere stesso.