Spesso nella vita di tutti i giorni, non prestiamo attenzione ai dettagli.
Crawling è uno di questi.
Magari quando l'hanno passata alla radio eravamo in auto,
oppure al bar, seduti a un tavolo a fare qualcosa con lo smartphone. Consci o no del fatto
che quella fosse crawling, e che fosse una delle più famose canzoni dei Linkin Park, ognuno
di noi l'ha ascoltata almeno una volta.
Ecco, questa è l'incidenza del suicidio sulle nostre vite.
Nessuno di noi conosceva
Chester Bennington personalmente, ma tutti abbiamo avuto la sua voce nelle orecchie almeno
per una volta. Una singola persona, 1 su 7 miliardi, eppure il fatto che si sia tolto la
vita è un qualcosa che è arrivato a riflettersi anche su di noi.
Insomma: che cos'è uno
0,011%? Niente. O forse più di 880’000. No, decisamente di più: i tentativi di suicidio
sono 20 volte superiori al numero degli effettivi suicidi (stiamo parlando di quasi 18 milioni di persone).
Culturalmente però non siamo abituati a pensarla in questi termini. Siamo piuttosto portati a
pensare che il suicidio sia un fenomeno estremo, un caso limite, un picco statistico,
qualcosa di piccolo e isolato e soprattutto di molto lontano. Invece è qualcosa che ci
coinvolge e che è sempre intorno a noi: nei padiglioni delle nostre cuffie, negli schermi
delle nostre tv, nei film che guardiamo da sempre.
Ma di questo non ce ne accorgiamo e, finchè il fulmine non cade vicino a noi, non esiste.
Robin Williams, Avicii, Kurt Cobain... sono molti i nomi che si potrebbero scegliere.
Noi abbiamo scelto quello di Chester, frontman dei Linkin Park, non solo per
una questione affettiva, ma anche perchè il suo caso è quello che si presta meglio
per affrontare il tema.
Come spesso accade infatti, anche la depressione e la sofferenza di Chester è stata
sottovalutata, archiviandola come "sì, si limita a farci le canzoni, ad utilizzarla come
fonte d'ispirazione..."
Nella sua vicenda è presente il tema dell'emulazione, che nel suo caso è stata totale:
la morte di Chris Cornell, frontman dei Soundgarden nonchè suo grandissimo amico, è stata
un duro colpo per lui e allo stesso tempo gli ha fatto maturare la decisione di compiere
il medesimo gesto, tra l'altro con la stessa modalità.
E infine il tema dei media: impietosi e quasi sprezzanti i titoli degli articoli contenenti
la notizia della sua morte, indice di un giornalismo selvaggio e sbagliato che mira soltanto
al profitto. «Il suicidio di Chester Bennington. Depressione, droga e abusi: i demoni di
Chaz», al popolo quello che vuole o si aspetta di leggere in un'ottica puramente capitalistica.
Ma del resto se siamo portati per retaggio culturale a sottostimare il fenomeno e a chiederci
"aveva successo, soldi e famiglia: perchè mai decidere di farla finita?", qualcosa di sbagliato
dovrà pur esserci nella nostra fredda e cinica società.
« Who cares if one more light goes out? Well, I do. »
Chester Bennington, Linkin Park - One more light
Ogni anno lo 0,011% della popolazione mondiale si suicida.
Una percentuale apparentemente così bassa, farebbe pensare al suicidio come un
fenomeno estremamente marginale e insignificante, ma affrontando la questione in
termini di numeri assoluti lo scenario prende una piega decisamente più pesante
perchè quell'esigua percentuale in realta corrisponde a più di 880.000 persone
l'anno: una persona ogni 40 secondi.
In media l'incidenza dei suicidi è maggiore a quella dei tentativi di omicidio in
quasi tutto il mondo e il dato diventa ancora più ingombrante se pensiamo che il
numero delle morti per suicidio, al giorno d'oggi, è addirittura superiore a quello
delle morti in guerra.
A questo, bisogna aggiungere anche il fatto che il tasso di suicidio non si
distribuiscce in modo omogeneo fra le varie nazioni: dal tasso minimo dello
0,001% che si registra in Pakistan, India e Australia, si passa bruscamente ai
tassi più alti al mondo di Groenlandia (0,161%) e Lituania (secondo tasso più alto
0,031%), drasticamente fuori-scala rispetto agli altri stati e alla stessa media
mondiale, fino ad arrivare all'assenza di dati per quasi tutti gli stati africani
e la Corea del Nord.
Le situazioni di Groenlandia e Lituania saltano subito all'occhio in quanto picco
statistico, ma sono anche una sorta di compendio e specchio delle cause del
suicidio in generale:
problematiche sociali, economiche, alcolismo e disoccupazione dilaganti, violenza
domestica, depressione, alienazione sociale e del singolo individuo, un passato di
dominazione (da un lato come colonia, dall'altro un regime comunista), ma
soprattutto la debolezza dei governi che non riesce a reagire un po' per mancanza
di fondi e possibilità economiche, un po' perchè si preferisce ignorare e
nascondere il problema (spesso scomodo anche a livello politico) piuttosto che
affrontarlo.
Considerando che il secondo tasso di suicidi al mondo (Lituania) è circa cinque
volte più basso rispetto a quello della Groenlandia e che quello groenlandese è
circa quindici volte più alto della media mondiale, risulta opportuno analizzare
con particolare attenzione la singolare situazione dell'isola più grande del mondo
per comprendere le cause che hanno generato quello che, a tutti gli effetti, nel
corso degli anni è diventato un problema culturale e strutturale.
Tutto comincia negli anni ’50, periodo in cui la Danimarca, alla quale la
Groenlandia sottostava in quanto colonia dal 1775, decide appunto di avviarne il
processo di modernizzazione.
Alla popolazione indigena dell'isola, ovvero gli Inuit, viene quindi imposto uno
stile di vita diametralmente opposto rispetto a quello che avevano sempre praticato:
diversi sia etnicamente che culturalmente dai danesi, gli Inuit conducevano una
vita semplice basata sulla pesca e la caccia a foche e renne.
Di punto in bianco vengono dapprima costretti a stabilirsi in casette di legno e
successivamente spinti a spostarsi dai villaggi alla capitale, dove ad aspettarli
c'erano solo schiere di piccoli e scialbi appartamenti popolari.
Questi repentini
cambiamenti, attuati dalla madrepatria con l'intenzione di migliorare lo stile di
vita Inuit e l'organizzazione della struttura assistenziale e scolastica, finirono
solo per negare alla popolazione il proprio tradizionale stile di vita basato su
caccia e pesca, con un conseguente drastico aumento di disoccupazione e depressione:
un terreno estremamente fertile per l'aumento dell'alcolismo, violenze domestiche e
abusi su minori e i disturbi mentali.
Il fenomeno del suicidio, in pratica, è stato generato e determinato dallo
stravolgimento dell'identità Inuit: prima della modernizzazione degli anni ’50,
infatti, la Groenlandia non conosceva il suicidio.
Il primo caso fu registrato negli anni ’60, un singolo adolescente in dieci anni.
Seguirono poi 17 casi negli anni ’70 e, tra gli anni ’80 e gli anni ’90 il tasso
percentuale salì di quattro volte diventando così sette volte più alto di quello
degli interi Stati Uniti nello stesso periodo.
Il solo anno 1985 registrò 50
suicidi su nemmeno 53’000 abitanti totali, generando un tasso di mortalità per
suicidio superiore a quello della mortalità per cancro.
In proiezione sarebbe come
se in quell'anno si fossero uccisi più di 250’000 cittadini Americani.
Non sapendo come affrontare il problema, il tema del suicidio diventò presto un tabù
per la popolazione e i media, che per anni sono rimasti in silenzio stampa proprio
come la comunità internazionale.
Il problema si è quindi esteso in tutta la nazione: da un iniziale picco nella
capitale, Nuuk, nel corso degli anni il fenomeno ha continuato a espandersi e
svilupparsi anche nei villaggi e nelle zone orientali e settentrionali. I grandi
centri restano comunque i più soggetti e il primato nazionale è ora detenuto dalla
città di Tasiilaq che da sola registra costantemente più di 200 casi di suicidio
all'anno.
A peggiorare ulteriormente la situazione, si aggiunge anche il primato mondiale per
gli aborti: si calcola che in Groenlandia ogni donna abbia abortito dalle 2 alle 3
volte nell'arco della propria vita. I dati, anche in questo caso mostrano uno
scenario preoccupante: 55 aborti ogni 1000 abitanti e, a partire dal gennaio 2000,
gli aborti hanno superato le nascite per 997 a 887.
A nulla sono servite le contromisure attuate dal governo quali la distribuzione di
contraccettivi gratis e l'inserimento dell'educazione sessuale nelle scuole: il
tasso resta costante e anzi in lenta crescita.
Addirittura anche le malattie sessualmente trasmissibili registrano un aumento in
particolare nella fascia dei giovani compresi tra i 15 e i 29 anni (complici l'alto
tasso di violenza domestica e abusi minorili): la sifilide, ad esempio, da 0 casi
nel 2010, nel 2014 è arrivata a superare i 47 casi.
Il futuro della Groenlandia risulta quindi essere fortemente a rischio.
Lo scenario è quello di una nazione in totale crollo demografico, sommersa dalle
problematiche sociali, incapace di rialzarsi a causa di un'economia debole e
abbandonata a sé stessa dal resto della comunità internazionale.
Adesso che anche la Danimarca, a seguito del referendum di indipendenza del 2008,
ha gradualmente abbandonato economicamente la Groenlandia, che già nel 1983 aveva
deciso di uscire dall'unione europea, la più grande isola del mondo sembra, ora
più che mai, alla deriva più totale.
Per quanto riguarda l'Asia, Giappone e Corea del Nord sono le nazioni maggiormente
esposte al fenomeno del suicidio, non a caso infatti il governo di entrambi i paesi
considera il suicidio come il più grave problema nazionale.
Accomunati dall'impronta religiosa confuciano-scintoista, giapponesi e coreani
sono socialmente abituati a percepire ogni fallimento come una tragedia della quale
provare vergogna il che, unito agli elevatissimi standard scolastici e lavorativi,
generano una pressione e uno stress tali da portare le persone a desiderare la
morte in caso di fallimento.
Yu Sato, scrittore ed ex diplomatico giapponese, nella postfazione al
fumetto "Uzumaki (La Spirale)" di Junji Ito, fa un'ampia riflessione riguardo il
Giappone contemporaneo e il Giappone del futuro, soffermandosi sulle responsabilità
di una classe politica che sembra essere quasi alienata rispetto alla realtà che
governa:
«il lavoro del burocrate consiste nel garantire la felicità della gente
comune.
Però si può dire che oggi i giapponesi siano davvero felici?
Perchè mai in un paese felice ogni anno oltre 30’000 persone dovrebbero togliersi la vita?
Perchè i burocrati, un'élite che ha ottenuto risultati
superiori nello studio, non sono in grado di portare felicità alla popolazione?
Sicuramente alcuni lettori penseranno: "in effetti, forse non siamo felici. Però il
Giappone è ricco, giusto? Dunque non possiamo essere poi tanto infelici".
Nonostante
di recente il suo PIL sia stato superato dalla Cina, il Giappone è la terza economia
mondiale. In ogni caso, la popolazione cinese è oltre dieci volte quella giapponese
e quindi i giapponesi hanno uno standard di vita di gran lunga superiore ai cinesi.
Ciò nonostante, in Giappone ci sono oltre dieci milioni di persone con un reddito
annuo inferiore ai 2 milioni di yen (poco meno di 15’000 euro). Con 2 milioni di yen,
una coppia, se vive in un appartamento economico, in una casa popolare o di proprietà,
è comunque in grado di condurre una vita dignitosa. Dato che siamo in deflazione,
servendosi dei negozi dove tutto costa 100 yen si può vivere in modo decoroso.
Tuttavia, con quel reddito è impossibile poter garantire una corretta istruzione ai
propri figli. Quindi nelle prossime generazioni non cresceranno delle persone che
sosterranno la società giapponese con il proprio lavoro. Ormai questo fenomeno non è
più inquadrabile come divario sociale, ma come indice di povertà assoluta. Una volta
caduti in povertà a causa di tagli del personale o malattia, è quasi impossibile
risollevarsi con le proprie forze. Inoltre la società capitalista giapponese
sta collassando dall'interno».
Collasso che per la Corea del Nord sembra essere estremamente più concreto: gli
oltre 15’500 suicidi all'anno sono 43 persone che si uccidono ogni giorno. A
peggiorare la situazione, il tasso di natalità più basso del mondo e, nonostante
la maggior parte dei suicidi nordcoreani siano uomini, la Corea registra il primato
per il più alto numero di suicidi fra le donne.
Inoltre il suicidio è anche la principale causa di morte tra i ragazzi compresi tra
i 10 e i 30 anni. Tra le cause più influenti ci sono lo stress e la pressione
scolastica o sul posto di lavoro, l'alienazione sociale e persino la disperazione
dovuta all'aver subìto un suicidio nel nucleo familiare o nella cerchia di amici.
Nel corso degli ultimi cinque anni il governo ha provato a contrastare il fenomeno,
ma senza ottenere alcun risultato. La causa di questo fallimento sembrerebbe essere
il fatto che gli sforzi siano stati concentrati sull'aiuto psichiatrico del singolo
individuo, invece di essere stati canalizzati nell'affrontare i macroproblemi del
tessuto sociale.
L'Europa conta circa 56"000 suicidi l'anno, accusando i tassi più alti di suicidio
nei Paesi Baltici.
Lo stato europeo con più alto tasso di suicidio è la Lituania, con un tasso di
suicidi pari a tre volte quello della Spagna o degli Stati uniti e undici volte
superiore rispetto a quello della Grecia.
Nel 2007, a causa della crisi economica, il tasso di suicidio tra i giovani è
aumentato in tutti gli stati dell'Unione e, in Irlanda, è sensibilmente aumentato
anche quello della fascia degli uomini di mezza età che hanno perso il lavoro.
Prima della seconda guerra mondiale, il tasso di suicidio in Lituania era
relativamente contenuto (8 suicidi ogni 100’000 abitanti) e decisamente più
sostenibile rispetto a quello attuale (31 suicidi ogni 100’000 abitanti).
All'epoca la popolazione viveva in campagna, era quasi del tutto credente praticante
e, più in generale, esisteva una comunità con una forte e stabile routine.
Con l'arrivo di Stalin però, gli equilibri vennero guastati: gli agricoltori più
ricchi furono deportati e gli altri furono installati nelle kolchoz
(cooperative agricole staliniste).
Questi cambiamenti portarono a un forte aumento dell'alcolismo e insieme a esso
aumentò anche il tasso di suicidio.
A differenza di quanto si potrebbe pensare però, la caduta del regime comunista e
l'indipendenza dall'URSS le cose peggiorarono ulteriormente: da 30 suicidi ogni
100’000 abitanti nel corso di tutti gli anni ’80, si passò a un drastico aumento
raggiunse il suo apice di 46 suicidi ogni 100’000 abitanti nel 1994-1995, un destino
comune agli altri paesi usciti dall'egida dell'URSS quali ad esempio
Kazakistan ed Estonia.
Avere un passato comunista è una delle più influenti cause per aumento del tasso di
suicidio: paradossalmente l'uscita da un regime comunista sembrerebbe portare come
unica conseguenza un forte aumento di disoccupazione, in particolare nel settore
agricolo.
Come nel caso della Lituania, all'alcolismo e alla disoccupazione dilagante vanno
aggiunte anche l'assenza quasi totale di servizi sociali, infrastrutture pessime,
assenza di acqua calda e servizi igienici per circa il 50% della popolazione con
una possibilità di accesso all'acqua corrente che si ferma al solo 25% degli
abitanti.
Il caso Lituano si differenzia rispetto al resto del mondo anche per una
"controtendenza": a differenza di quello che avviene da qualsiasi altra parte, in
Lituania la maggiore concentrazione di casi di suicidio non si registra nei grandi
centri, bensì nelle zone rurali, dove vive circa un terzo della popolazione totale.
Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani in Italia. Ogni anno coinvolge circa 3700 persone, le donne rappresentano circa un terzo del totale, mentre la maggioranza dei soggetti sono principalmente uomini di mezza età, residenti nelle regioni centro-settentrionali. Tra il 2011 e il 2015 sono stati registrati più di 700 casi di suicidio per ragioni economiche, il 60% dei quali vede coinvolti imprenditori e lavoratori dipendenti, mentre il restante 40% rappresenta i disoccupati. Molto spesso, infatti, chi perde un'attività a causa dei debiti ha paura di chiedere aiuto e di rendere pubblico il proprio disagio, e decide di difendere la propria dignità togliendosi la vita. La maggioranza degli imprenditori che si suicidano (30,8%) risulta residente al nord, mentre la maggioranza dei disoccupati (28%) è residente al sud o nelle isole. Considerando i dati sulla disoccupazione nel sud Italia, non sorprende che il numero più elevato di vittime tra chi non ha lavoro si concentri nelle regioni meridionali, mentre al nord, patria delle piccole e medie imprese, crescono i casi tra gli imprenditori. Le principali cause del suicidio economico sono legate all'impossibilità di saldare debiti o mutui, soprattutto se riguardano beni immobili quali fondi commerciali o domicili privati. La maggior parte dei suicidi però si suicida per problemi legati a disturbi mentali, primi tra tutti depressione e ansia. La Sardegna infatti è una delle regioni italiane più colpite dal fenomeno, proprio a causa del crescente tasso di depressione, che affligge il 13% della popolazione. Secondo il convegno internazionale di suicidologia e salute pubblica, circa la metà dei suicidi italiani sarebbero evitabili con campagne di prevenzione.
Proprio come nel resto del mondo, anche in italia la maggior parte dei suicidi sono uomini.
C'è però da precisare che nelle donne si registrano tassi più elevati di comportamento
suicidario non fatale, mentre i maschi hanno un tasso più elevato di tentativi portati a
termine.
Tra le varie cause, le più comuni sono quelle della ricerca di pace, fuga dal "vuoto", dal
dolore, dalla vergogna, paura di non trovare lavoro o di perderlo, fallimenti considerati
irreparabili, solitudine ed esclusione sociale. Anche la perdita del coniuge o il passaggio
allo status di pensionato inficiano negativamente sui soggetti, in particolar modo sugli
uomini.
La fascia di popolazione più colpita dal fenomeno è quella che va dai 35 ai 64 anni e
a seguire quella dai 65 in su, che rappresenta più di un terzo del totale.
All'interno di quest'ultima fascia il rapporto tra uomini e donne è di 52% a 48% e per
entrambi i generi la possibilità che il soggetto opti per una morte suicida aumenta con
l'aumentare dell'età, ma mentre per le donne si ha un aumento costante, per gli uomini
il tasso schizza in modo esponenziale passando dai 14 casi su 100’000 abitanti della
fascia 65-69 anni, fino ai 46 su 100’000 degli over 95.
Inoltre per gli uomini il suicidio aumenta in concomitanza con il raggiungimento dell'età
di pensione e l'uscita dei figli dal nucleo familiare. Qualora poi a questi eventi e
all'invecchiamento dovessero affiancarsi anche problemi di salute, il rischio di isolamento
sociale diventerebbe altissimo e, con esso, la probabilità che la persona si suicidi.
Importante anche la perdita del coniuge che, anche in questo caso, influisce in modo molto
forte principalmente sugli uomini.
È possibile l'esistenza di una correlazione tra suicidio e stato civile. Sebbene il suicidio sia ampiamente più frequente negli uomini fra i coniugati rappresentano la minoranza, mentre il numero dei celibi che si suicida è di gran lunga superiore a quello delle nubili. Le donne divorziate tendono maggiormente al suicidio se sono loro a non aver chiesto il divorzio. Lo stato di vedovanza sembrerebbe incentivare il suicidio negli uomini che perdono la partner.
Dalle statistiche ricavabili dal grafico, costanti nei 5 anni a cui fanno riferimento, si può evincere un inequivocabile
rapporto tra tasso di suicidio e titolo di studio: i laureati che si tolgono la vita sono circa un 1/10 rispetto a chi ha terminato gli
studi in quinta elementare o in terza media, o a chi non ha nessun titolo di studio (circa 1000 suicidi all'anno contro poco più di 100).
Questo dato probabilmente sta ad indicare un diverso approccio verso le difficoltà della vita da parte di chi ha studiato più a lungo,
come se l'aver conseguito una laurea (o più in generale la cultura) potesse aiutare ad affrontare le avversità, scongiurando più
facilmente lo spettro del suicidio.
I suicidi tra i diplomati sono lo spartiacque tra le varie categorie, collocandosi su una media di circa
500 vittime all'anno.
Generalmente chi soffre di malattie fisiche si avvelena o si uccide con armi da fuoco o oggetti taglienti quali coltelli o vetri. Spesso i soggetti in questione sono persone che scoprono di avere malattie terminali o che subiscono gravi traumi fisici. Chi soffre di disturbi mentali invece tende a impiccarsi, soffocarsi o annegarsi. Si possono solo fare ipotesi riguardo a queste tendenze in quanto non è possibile attuare una categorizzazione oggettiva.
Il 50% dei suicidi avviene in casa. La percentuale sale in caso di presenza di malattie fisiche o mentali, fino ad arrivare a 57%. Nello specifico i suicidi con morbosità associata sono stimati intorno al 27% nelle donne, mentre per gli uomini si fermano al 16%. I soggetti più a rischio sono chiaramente quelli affetti da depressione o ansia cronica, ma non è da escludere anche chi soffre di bipolarismo e altre condizioni di instabilità o psicotiche. Secondo l'ISTAT non si può delineare con certezza un rapporto di causa-effetto con la presenza di malattie o disturbi mentali, ma si può comunque osservare un certo legame con l'avanzare dell'età . Il più alto tasso di suicidi in presenza di disturbi mentali si ha al nord, seguono centro e sud.
Durante la creazione di questo progetto, ci siamo chiesti perchè i dati ISTAT inerenti al suicidio siano fermi al 2015. La risposta ci è arrivata dal sociologo Nicola Ferrigni: in Italia il suicidio è un argomento tabù. Secondo il professore universitario, infatti, l'ISTAT non divulgherebbe i dati riguardanti i suicidi non per problematiche tecniche e di rintracciabilità dei dati, ma bensì perchè il suicidio, e in particolare quello economico, è una bega sia per la politica che per la Chiesa. I motivi sono diversi, ma il risultato è lo stesso: il suicido è una manifestazione di disagio, insoddisfazione e infelicità. Ammettere che il problema esista e sia incidente (seconda causa di morte tra i giovani) sarebbe come ammettere di aver sbagliato qualcosa. Politiche interne, politiche estere, una macchina assistenziale sottodimensionata, aumento del divario sociale e del numero di persone in condizione di povertà assoluta... Tutti problemi che un governo non vorrebbe mai vedere associati al proprio operato e che quindi portano alla decisione di non affrontare il problema apertamente. E lo stesso vale anche per gli altri centri di studi, come il Censis, che come l'ISTAT preferisce evitare di pubblicare un rapporto sul fenomeno.
Combattere un fenomeno come il suicidio non è cosa semplice. Dissuadere una persona
da quest'intento è difficile, ma non del tutto impossibile, solo che non sappiamo
come farlo. La prevenzione dei suicidi più che sui soggetti a rischio, deve agire su
chi può aiutarli, fornendo gli strumenti necessari per poter capire la problematica
e come eventualmente gestirla.
Il discorso non è poi così dissimile dalle
esercitazioni antisismiche: in caso di terremoto sappiamo tutti come ripararci e
dove raccoglierci, quali segnali seguire e come muoverci. Nel caso di un incendio
lo stesso. Ma nel caso di un amico che sta accarezzando l'idea del suicidio?
Riusciremmo ad accorgercene? E se ci confessasse la sua volontà di uccidersi?
Sapremmo gestire la situazione in modo fermo e lucido? Quello che servirebbe sarebbe
proprio una campagna di sensibilizzazione al tema attraverso interventi del tutto
simili a qualsiasi altra campagna di prevenzione, quali ad esempio quelle
riguardanti l'educazione sessuale o la prevenzione dei tumori. L'educazione al
problema è il primo passo verso la sua soluzione.
A questo scopo stampa e media giocano un ruolo importante, ma evidentemente gli
operatori della notizia non sembrano averlo compreso: troppo spesso si passa dal
rischiare di incentivare l'emulazione, al rischiare di demonizzare il fenomeno.
Spesso infatti i giornalisti si soffermano su dettagli decisamente evitabili, ma che
fanno notizia e quindi potenzialmente potrebbero generare guadagno: scendere nello
specifico e descrivere con minuzia la modalità e la tecnica utilizzata per uccidersi
infatti, sono inutili dettagli macabri che non aggiungono nulla al lettore, ma che
potrebbero invece essere d'ispirazione per un aspirante suicida.
I più esposti a
questo rischio sono i giovani, che magari in un articolo malformato potrebbero
trovare una soluzione ai propri problemi nell'emulazione. Troppo sensazionalismo
può dunque portare al cosiddetto effetto Werther, secondo il quale più informazioni
dettagliate vengono fornite, maggiore sarà l'effetto di emulazione.
È il caso della morte di Robin Williams: molti siti di news americani scrissero
addirittura nel titolo la modalità del suicidio. Clamoroso il tweet dell'Academy
degli Oscar "Genio, sei libero" (in riferimento al suo doppiaggio nel film animato
Aladdin), facendo di fatti passare il suo suicidio come una scelta liberatoria.
Il risultato fu che nei 4 mesi successivi alla morte di Williams, il tasso di
suicidi Americano registrò un aumento del 10%, che coinvolse perlopiù la fascia
degli uomini di mezza età, ovvero la stessa categoria demografica dell'attore.
Inoltre, nei 5 mesi successivi, l'emulazione della stessa modalità utilizzata da Williams
aumentò di oltre il 32%.
Viceversa, nel caso di Kurt Cobain, le tv americane fecero un eccellente lavoro
seguendo le all'epoca scrupolosissime linee guida per parlare
dei suicidi, stilate più o meno nello stesso periodo, adottando titoli neutri
("Kurt Cobain, poeta riluttante del grunge, morto a 27 anni", New York Times)
e una trattazione modesta e discreta.
Non è semplice calcolare quanto i dettagli specifici di un suicidio possano influenzare
il tasso, ma si può certamente osservare che in quel periodo i suicidi non
aumentarono nemmeno a Seattle, città natale del cantante, forse anche grazie
all'impegno delle strutture e numeri di supporto impiantate nella città proprio in
reazione al gesto di Kurt.
L'altra faccia della medaglia è quella che liquida le cause effettive per accennare
in modo frettoloso e sommario alle storie di infanzie traumatiche, abusi di sostanze
stupefacenti che tanto fanno notizia e successo in cronaca, ma che come risultato
hanno soltanto la demonizzazione della persona e del fenomeno presso la società,
che viene quindi spinta e abituata a colpevolizzare e biasimare il gesto invece che
comprenderlo.
Quando si ha a che fare con una persona che mostra di avere tendenze suicide, l'unica
cosa giusta da fare è quella di cercare di comprenderne i sentimenti con l'empatia e
di manifestarle la volontà di volerle bene e di volerla aiutare in qualsiasi modo,
anche il più stupido pur di non vederla andare via. Provare a dare consigli o
tirare su il morale potrebbero solo far credere alla persona che non si è in grado di
capirla, quindi sarebbe meglio evitare e piuttosto cercare di far parlare la persona
con uno specialista, magari offrendosi di accompagnarla.
Per Paulus Skruibis, direttore del programma di sostegno psicologico per i giovani, il problema lituano non è soltanto economico, ma anche e soprattutto politico: «i politici riducono la situazione a una mera questione economica, credendo che sia tutto un problema di salario e non di livello e qualità della vita». Ed è per questo che si è mosso personalmente per erigere un vero e proprio fronte giovanile antidepressione: 130 volontari appositamente formati per fornire sostegno psicologico, e una linea di assistenza telefonica 24 ore su 24 ogni giorno della settimana. Il tutto senza chiedere niente in cambio alla persona che sta telefonando, nemmeno il nome. Il risultato è stato sorprendente: nel primissimo anno il centro di Skruibis ha ricevuto più di 100’000 chiamate, di cui 8500 estremamente serie e 150 di persone che stavano per compiere l'atto, ma che hanno voluto posare l'arma o qualsiasi altro oggetto e alzare la cornetta per effettuare quella che pensavano sarebbe stata la loro ultima telefonata. A sostenere Skruibis si è poi unita una delle più conosciute rockstar lituane, Andrius Mamontovas, grazie al quale Skruibis riescì a lanciare l'iniziativa in televisione e organizzare un tour nelle zone più a rischio. A supporto venne anche lanciata una forte campagna di volantinaggio volta a diffondere consigli utili su come riconoscere e aiutare o dissuadere un aspirante suicida. Volantini che Mamontovas autografa dovunque senza sosta: si contano più di 40’000 volantini autografati nei soli concerti della tournée. Tutti questi sforzi hanno così portato a un incremento superiore al 110% delle chiamate al centro di sostegno e quindi, potenzialmente, a salvare il doppio delle persone. A volte anche una sola parola o un gesto d'affetto potrebbero salvare la vita di una persona.
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Federico Talarico #545742
Francesco De Sanctis #543805